giovedì 31 maggio 2007

L’ipocondria dell’impolitico: una diagnosi

Introduzione alla raccolta di saggio di D. Losurdo dal titolo L'ipocondria dell'impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001, pp. III-XV


1. Se vogliamo cercare un filo conduttore che ci consenta di orientarci nel pensiero politico di Hegel, possiamo forse individuarlo nella diagnosi storica e politica dell’evasione dal mondo politico come una forma di «ipocondria». E’ la «consapevole aspirazione ad innalzarsi al di sopra del dato e del reale», evadendo in un «mondo etereo di profumi e suoni, senza sostanza»; è la tendenza a contrapporre alla mediocrità del reale «un mondo diverso, spirituale e meraviglioso» ovvero i «miracoli dell’anima», la «favola di un’interiore vita spirituale, che dovrebbe essere più elevata». Questa tendenza è diventata una sorta di malattia nazionale tedesca in un paese che vede Novalis teorizzare o celebrare l’«ipocondria assoluta», e che, soprattutto, rivela un grave ritardo politico rispetto alla Francia o all’Inghilterra.
Si tratta allora di fare i conti con una visione del mondo, che rende difficile o impossibile la partecipazione attiva e consapevole alla vita politica. Si impone la necessità di un’educazione filosofica alla politica. Epperò, siamo in presenza di un problema che travalica ampiamente i confini della Germania, anche se qui si manifesta con particolare forza. La crisi prima e il crollo poi dell’antico regime comportano il costituirsi di una sfera pubblica, di un campo nuovo che si apre all’intervento e all’azione politica di ceti sociali, fino a quel momento rinchiusi in una dimensione privata. Come si deve configurare l’azione politica che ora diventa possibile? A questa domanda sono chiamati a rispondere in primo luogo gli intellettuali, anche per il fatto che, nella nuova situazione venutasi a creare, ceti intellettuali e politici tendono a fare tutt’uno.
Il problema non si pone con la stessa intensità in tutti i paesi. Una sociologia comparata dei ceti intellettuali e politici porta subito a distinguere la situazione nei diversi paesi. Mentre in Inghilterra e negli USA sono organicamente legati, in un modo o nell’altro, alla grande proprietà (compresa, per quanto riguarda l’America, la proprietà di schiavi), gli intellettuali all’opera in Francia appaiono agli occhi di Burke come i pezzenti della penna, come i Gueux plumées. Alcuni anni più tardi, dalla Pietroburgo ancora scossa dalla rivolta contadina soffocata alcuni decenni prima e guidata da Pugacev, Maistre esprime la sua angoscia per il profilarsi all’orizzonte di una figura ancora più sinistra, quella di un «Pugacev dell’Università». Un’analoga polemica si sviluppa in Germania. Uno statista di primo piano come Stein, protagonista delle riforme che avevano fatto seguito alla disfatta di Jena, tuona contro la «casta di scribacchini» che, «privi di proprietà» come sono, non esitano ad attaccare «diritti antichi e tramandati». Se in Francia i «pezzenti della penna» sono per lo più giornalisti, avvocati e liberi professionisti, in Germania sono soprattutto professori universitari e funzionari statali che, per dirla con Stein, «ricevono il loro stipendio dalla cassa statale, e scrivono, scrivono, scrivono nel loro ufficio silenzioso e al riparo di porte ben chiuse». Comunque, anche in questo caso, netta è la contrapposizione, sul piano sociologico e politico, rispetto ai proprietari e agli intellettuali proprietari. Gli intellettuali sono accusati da Burke di servirsi delle classi umili come di un «corpo di Giannizzeri» per assaltare la proprietà, da Maistre di far corpo coi servi della gleba ribelli, da Stein di stimolare, con le loro dottrine irreligiose e eversive, il «dispotismo dei proletari insorti». In tutti i tre i casi, il fatto nuovo e scandaloso è l’emergere di un ceto di intellettuali non legati alle classi possidenti, anzi talvolta in polemica con esse, e aperti all’influsso delle masse popolari. Per di più -prosegue la requisitoria- questi nuovi intellettuali si caratterizzano per la tendenza all’astrattezza, e ad una astrattezza eversiva, che li porta ad inseguire fantastici progetti di trasformazione e rigenerazione, pericolosi o rovinosi per l’ordinamento sociale esistente[1].
2. Come rispondono a questa critica i diversi esponenti della filosofia classica tedesca, che da essa sono direttamente o indirettamente investiti? Duramente polemico nei confronti di coloro che vorrebbero ridurre la teoria a vuota esercitazione scolastica senza alcun rapporto con la realtà. Kant è sdegnato per «l’accusa inaudita» rivolta alla «metafisica», alla costruzione di idee e teorie generali, di essere la «causa delle rivoluzioni politiche»; in realtà, si può ascrivere a merito dei «metafisici» il fatto che, nella loro «speranza sanguigna di migliorare il mondo», essi sono pronti a fare «l’impossibile». Andando ben oltre, Fichte scioglie un vero e proprio inno all’intellettuale, più esattamente all’intellettuale engagé, che, con la sua capacità di vedere il presente e il futuro e di scandire quindi i tempi del progresso, è il «maestro del genere umano», anzi il «sale della terra». La figura, celebrata in modo più sobrio o più enfatico da Kant e da Fichte, è per l’appunto il bersaglio dei critici dell’«astrattezza».
Nonostante lo sdegno dei due filosofi idealisti, questa critica evidenzia un problema reale. Non c’è dubbio che gli intellettuali proprietari giungono all’appuntamento con la crisi o col crollo dell’antico regime avendo già alle spalle una reale esperienza politica e persino di esercizio di potere politico. Negli USA i proprietari di schiavi, dalle cui file provengono gli intellettuali e gli statisti più eminenti (per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli USA, a detenere la presidenza sono per l’appunto proprietari di schiavi), non si limitano a godere della loro ricchezza come di una specie «peculiare» di proprietà privata accanto alle altre: esercitano al tempo stesso «un potere esecutivo, legislativo e giudiziario». Considerazioni in una certa misura analoghe potrebbero essere fatte valere in relazione all’Inghilterra: la proprietà terriera (dalla quale spesso provengono gli intellettuali liberali) è ben presente nella Camera dei Lord e dei Comuni oppure, con la gentry, esprime direttamente i giudici di pace e quindi detiene il potere giudiziario. Per quanto riguarda la Prussia, gli Junker non sono solo dei proprietari terrieri, sono anche «centri locali di autorità politica» (per usare il linguaggio di Weber)[2]. E anche gli Junker, e la piccola nobiltà da essi influenzata, guardano con estrema diffidenza e ostilità all’«astrattezza» ovvero, per usare il linguaggio di Stein, alla «metapolitica poco pratica» di scribacchini e funzionari statali. Il dibattito sul ruolo della teoria e della pratica, che si sviluppa con particolare asprezza sull’onda della rivoluzione francese, è al tempo stesso il conflitto politico-sociale che contrappone la figura del «pezzente della penna» all’intellettuale proprietario, attestato su posizioni liberali in paesi quali l’Inghilterra e gli USA e su posizioni conservatrici in paesi quali la Prussia.
Come si colloca Hegel nell’ambito di tale dibattito? La sua presa di posizione a favore della teoria è particolarmente netta. «Astrazione» e «astratto» non hanno più un significato univocamente negativo. E’ qualcosa di grande e ammirevole, ad esempio, l’elaborazione del concetto «astratto», universale di uomo, il riconoscimento di diritti inalienabili ad un soggetto che fa «astrazione» dalla nazionalità, dal censo e da altre determinazioni «concrete». La rivoluzione francese rappresenta un momento di svolta nella storia universale proprio per aver saputo innalzarsi all’altezza di questa «astrazione». Ma una volta elaborata e affermata, nel corso di lotte gigantesche, questa «astrazione» è entrata a far parte di un patrimonio ideale, che non è facile o non è più possibile rimettere in discussione; almeno in Occidente, essa è ormai divenuta seconda natura.
Ed ecco che ora le parti si rovesciano. Al contrario di quello che ritengono i teorici della conservazione e della reazione, è proprio nella Prussia ancora al di qua della proclamazione dei diritti dell’uomo, che domina l’astrazione: trattato come una «canaglia», il soldato semplice può essere bastonato dal suo superiore e il servo dal suo padrone. Siamo in presenza di una forma di pensiero e comportamento «astratto», in quanto essa prescinde dalla concretezza dell’uomo, per fissarlo in un’unica «astratta determinazione», quella della ricchezza o del rango sociale. Non c’è concretezza nel pensiero e nei rapporti sociali se non si fa riferimento a quella comune dignità umana, che i critici della rivoluzione francese e della proclamazione di diritti dell’uomo non si stancano di denunciare come un concetto «astratto» e «metafisico».
Dunque, Hegel risponde alla crociata contro l’intellettuale astratto bandita dai nemici della rivoluzione francese non limitandosi a ribadire i meriti della teoria, come invece fanno Kant e Fichte. Ora invece assistiamo ad una radicale problematizzazione della coppia concettuale astratto/concreto. L’astrazione non è solo un procedimento ideale; può entrare ed entra a far parte della realtà sociale, assumendo uno spessore e una «concretezza» nuovi, sicché a rinchiudersi nell’«astrazione» più povera sono coloro che sognano un impossibile ritorno allo status quo ante. La problematizzazione della coppia concettuale astratto/concreto è anche la sua storicizzazione.
Potremmo dire che, invece di limitarsi a respingere, come fanno Kant e Fichte, la critica che gli avversari della rivoluzione francese rivolgono alla teoria «astratta», Hegel si innalza ad un punto di vista metacritico. E, proprio per questo, si sforza di tener conto delle ragioni degli avversari della rivoluzione francese e della teoria «astratta». Sì, è merito soprattutto degli intellettuali spesso bollati come «astratti» di aver elaborato il concetto universale di uomo. «Il principio dell’universalità dei principi -osserva Hegel- si afferma nel corso della rivoluzione francese con un rigore sconosciuto alla rivoluzione americana. E ciò -si potrebbe aggiungere- non è un caso. Il distacco dai «centri locali di autorità politica» e dalla grande proprietà (compresa la proprietà degli schiavi) rende più agevole il processo di astrazione dalle determinazioni particolari e concrete che sfocia nell’elaborazione del concetto «astratto», universale di uomo. Fuori discussione sono dunque i meriti della teoria «astratta» e dell’intellettuale «astratto» (e non proprietario). Epperò, per poter costruire un nuovo ordinamento sociale, l’universale deve saper tornare al particolare e al concreto, deve sapersi calare nella storia e far i conti con le resistenze, le difficoltà, le tortuosità, le mediazioni, i compromessi, i dilemmi, i drammi che sono parte integrante del processo storico e dell’azione politica.
Di qui si devono prendere le mosse per comprendere le avventure dell’universale e dell’intellettuale «astratto». Un universale affermato e goduto in un rapporto di inconciliabile e insuperabile contraddizione con il particolare è incapace di stimolare un’azione politica efficace e suscettibile di produrre risultati duraturi. Condanna all’impotenza un ideale, un dover essere che guarda al reale e all’essere solo come ad una fonte di contaminazione e snaturamento. Ignoto all’intellettuale proprietario, tranquillamente avvezzo al godimento della proprietà e all’esercizio del potere, questo problema è, invece, al centro della vita spirituale dell’intellettuale non proprietario e «astratto». Facilmente si accende di entusiasmo per le idee universali e i nobili ideali, nonché per i progetti politici che sembrano promettere la realizzazione di questo nuovo mondo spirituale. Senonché, dinanzi alle prime difficoltà e alle prime contraddizioni, che inevitabilmente insorgono nel corso del processo di costruzione di una società nuova, ecco che l’ingenuo entusiasmo si rovescia in una delusione e in un disgusto tanto più radicali quanto più esaltate erano state le speranze e le illusioni. Ora il mondo politico, il mondo in quanto tale si rivela irrimediabilmente mediocre e volgare. E’ l’ipocondria dell’impolitico.
3. E’ un fenomeno che irrompe con forza nei momenti cruciali di crisi della rivoluzione o del progetto politico di trasformazione. Questa ipocondria è per un verso il risultato dell’offensiva ideologica delle classi dominanti, che bollano come delirio l’aspirazione a costruire un diverso ordinamento politico-sociale, per un altro verso è espressione del rovesciarsi della saccenteria del dover essere in una delusione impotente e paga della propria impotenza. Alla crisi degli entusiasmi precedentemente suscitati dalla rivoluzione francese e ormai dileguati dinanzi allo spettacolo della volgarità edonistica e della rapacità espansionistica della Francia post-termidoriana fa eco l’invocazione di Friedrich Schlegel a «non dissipare fede e amore nel mondo politico».. Contemporaneo al trionfo della Restaurazione è il disprezzo sconfinato che Schopenhauer riserva alla politica: «mi sentirei degradato se dovessi seriamente rivolgere l’applicazione delle mie forze spirituali a una sfera ai miei occhi così mediocre e angusta, quali le circostanze di volta in volta presenti di un determinato tempo o paese». Al fallimento della rivoluzione del ‘48 corrisponde l’appello da Schelling rivolto ai Tedeschi ad abbandonare l’«alterco politico» («lasciate pure che vi si accusi di essere un popolo impolitico)[3] e il trionfo di Schopenhauer (dal quale prende le mosse Nietzsche). L’odierna fortuna dell’impolitico non è certo senza rapporto con le delusioni e con la crisi di rigetto che hanno fatto seguito alle speranze e agli entusiasmi suscitati da un’altra grande rivoluzione... Piuttosto che essere analizzato storicamente, quell’intreccio di gigantesca emancipazione e di orrore, che caratterizza la vicenda iniziata nel 1917 (o già nel 1789), diviene l’occasione per la fuga dal terreno storico e politico e per l’approdo ad un «impolitico», che può assumere diverse configurazioni: l’intimismo e l’edificazione, un utopismo pago di sé e sdegnoso di qualsiasi confronto con la realtà, un problematicismo che tende a vedere come comunque condannato allo scacco qualsiasi progetto ambizioso di trasformazione politica[4].
Hegel è il più grande critico di questo atteggiamento forse perché lui stesso l’ha attraversato nel corso della sua evoluzione. Nel 1796 o 1797 egli elabora (ovvero trascrive da un altro autore rivelando comunque un interesse simpatetico) un testo, che si presenta come la celebrazione dell’impolitico: vi si parla con disdegno dell’«intera misera opera umana di Stato, costituzione, governo, legislazione»; priva di ogni dignità e di ogni bellezza è l’azione politica per il fatto che «ogni Stato tratta necessariamente gli uomini liberi come rotelle di un ingranaggio meccanico»; la libertà e lo spirito rinviano ad una dimensione ben diversa da quella politica, dalla quale ultima dovrebbe tenersi ben lontano chiunque voglia sfuggire alla mediocrità e volgarità[5]. A questo testo (il Progetto di sistema) sembra quasi voler rispondere la Fenomenologia dello spirito: «Ma come c’è una vuota estensione, così c’è una vuota profondità [...] La forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione; la sua profondità è profonda soltanto in quella misura secondo la quale esso ardisca di espandersi e perdersi mentre dispiega se stesso».
4. Abbiamo detto, che la critica dell’ipocondria dell’impolitico è il filo conduttore del pensiero politico di Hegel. Ma forse si potrebbe aggiungere che lo è della filosofia di Hegel in quanto tale. Il rimprovero fondamentale che egli rivolge a Kant è di stimolare, con la sua «paura dell’oggetto» per l’appunto l’ipocondria, la malattia nazionale tedesca che già conosciamo. Il criticismo cerca di camuffare la sua incapacità di riconoscersi nel reale e di misurarsi concretamente con esso atteggiandosi a problematicismo rigoroso e sofferto:
«La paura della verità potrà ben occultarsi a sé e agli altri dietro la finzione che l’ardente zelo per la verità stessa le rende difficile, anzi impossibile, trovare un’altra verità al di fuori di quella unica della vanità d’essere sempre più intelligente di qualsivoglia pensiero, provenga esso da se stesso o da altri; questa vanità che è capace di render vana ogni verità per tornarsene poi in se stessa e che si pasce del suo proprio intelletto il quale, dissolvendo ogni pensiero, non sa ritrovare un contenuto, ma soltanto l’arido io»
All’accettazione di una «verità» non sottoposta ad indagine critica subentra l’incapacità a riconoscersi in una qualsiasi verità, che non sia quella del soggetto. All’acrisia nei confronti dell’oggetto subentra così l’acrisia nei confronti del soggetto, al dogmatismo dell’oggetto il dogmatismo del soggetto. Siamo in presenza di un problematicismo che esibisce non solo il rigore ma anche la sofferenza, implicita in una ricerca per definizione senza sbocco e senza risultato. Ed ecco il commento sarcastico di Hegel: «Ci sono molti uomini che sono infelici (unglückselig), sono cioè beati (selig) nella loro infelicità (Unglück); costoro hanno il bisogno dell’infelicità, sono scontenti della felicità e criticano meglio che possono». E’ qui che s’innesta l’ipocondria dell’impolitico. La polemica contro di essa caratterizza gli anni che precedono in Germania la rivoluzione del 1848. La scoperta dello spazio, che si è aperto o che si sta aprendo all’azione politica, va di pari passo con l’assimilazione della lezione di Hegel, il più implacabile avversario, agli occhi di Rosenkranz, del’«ipocondriaca vanità», che guarda con disdegno e con aria di superiorità alla realtà politica.
Dopo essersi manifestata, prima della rivoluzione, soprattutto come incapacità di prendere atto della novità della sfera pubblica, dopo il fallimento della rivoluzione l’ipocondria si manifesta come fuga piagnucolosa da uno spazio che è sì aperto all’azione politica ma che, in questo suo aprirsi, rivela uno spessore, una resistenza e una complessità imprevista, che mettono a dura prova l’impazienza e la sicumera del soggetto. E di nuovo il dogmatismo del soggetto mette in discussione e anzi in stato d’accusa sempre e soltanto l’oggetto, la realtà politica che, resistendo e sottraendosi ai nobili ideali e alle buone intenzioni del soggetto, rivela la sua irrimediabile opacità. E’ significativo che, nel polemizzare contro tale atteggiamento, Marx ed Engels si richiamano costantemente alla Fenomenologia dello spirito. Il primo si fa beffe di quanti finiscono oggettivamente col rappresentare «con sorprendente fedeltà “la coscienza onesta”», assumendo l’atteggiamento di chi, dinanzi alle difficoltà della situazione oggettiva e alla mancata realizzazione di certi ideali, si preoccupa innanzi tutto di ribadire la propria «interiore sincerità» e di cingere l’«aureola dell’onesta intenzione». Il secondo si richiama soprattutto alla critica hegeliana dell’«anima bella», incapace di trasformare il reale, dinanzi alla cui durezza si ritrae inorridita, compiangendo se medesima in quanto «incompresa» e misconosciuta dal mondo[6].
Marx ed Engels si richiamano in primo luogo alla Fenomenologia dello spirito. Ma la resa dei conti con l’ipocondria dell’impolitico gioca un ruolo importante anche nella Scienza della Logica. Proprio qui troviamo una critica particolarmente pungente della retorica del dover essere, la quale gode nel proclamare l’irraggiungibilità degli ideali che pure assicura di perseguire appassionatamente. A parole afferma il dover essere degli ideali; in realtà presuppone il non dover essere degli ideali cui rende omaggio: solo a partire dall’affermazione dell’incolmabile abisso che sussisterebbe tra ideale e reale, il soggetto può celebrare la propria interiore eccellenza in contrapposizione all’irrimediabile volgarità e opacità che attribuisce all’oggetto.
5. Oltre che su Marx e Engels, la critica hegeliana dell’ipocondria dell’impolitico influisce anche su Lenin. Questi, pur guardando con un certo interesse al «”socialismo” di Feuerbach» e pur ammirando il suo materialismo in generale e gli «spunti di materialismo storico» in particolare, non nasconde la sua ironia per l’atteggiamento del filosofo che, senza realmente comprendere la rivoluzione del ‘48, «si ritira in campagna», al fine di «vivere con la “natura”» e di tenere a debita distanza «tutte le rappresentazioni “esaltate”» proprie dei rivoluzionari, che continuavano ad infuriare nelle città[7]. In questo momento lo stesso Feuerbach risulta essere stato colpito dall’ipocondria dell’impolitico. Nel nome della natura e delle scienze della natura, raccomanda «l’indifferenza contro i partiti e i traffici politici», dichiara di non voler avere nulla a che fare con una realtà politica «deprimente e nauseante» e ripete con Cicerone: «Sunt omnia omnium miseriarum plenissima (ogni cosa è colma di ogni miseria)[8].
La presenza di Hegel continua a farsi avvertire anche nel Lenin critico della «frase rivoluzionaria». E’ un momento in cui la Russia sovietica appena nata è costretta a fronteggiare, oltre che la controrivoluzione interna, l’avanzata irresistibile dell’esercito della Germania di Guglielmo II. Piuttosto che subire la vergogna di scendere a patti con gli invasori, alle condizioni da essi imposte, certi esponenti del partito bolscevico si dichiarano pronti a morire assieme allo Stato alla cui fondazione avevano contribuito. Risuonano così dichiarazioni e parole d’ordine che -osserva Lenin- esprimono solo «sentimenti, desideri, collera, indignazione». Siamo ricondotti all’«ipocondria», alla tendenza criticata da Hegel ad «innalzarsi al di sopra del dato e del reale» per attingere «un mondo diverso, spirituale e meraviglioso». Accenti simili ha la requisitoria da Lenin pronunciata contro gli «eroi della frase», i quali amano cullarsi in «parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé»[9].
In occasione di crisi drammatiche e che appaiono senza via d’uscita, persino all’interno di un ceto politico che intende essere totus politicus può manifestarsi la tendenza a sostituire il gesto estetizzante all’azione politica, la compiaciuta contemplazione della propria eccellenza interiore al difficile compito di misurarsi con il reale. Certo, le situazioni qui messe a confronto sono radicalmente diverse; epperò, in entrambi i casi il protagonista della vicenda e il bersaglio della polemica è la medesima figura sociale. Al contrario dell’intellettuale proprietario e delle classi proprietarie, di solito il «pezzente della penna», il «Pugacev accademico» non ha alcuna esperienza di gestione del potere; d’altro canto, essi non intendono limitarsi ad amministrare l’esistente ma aspirano a modificarlo profondamente. In questa ambizione, che pure ha la sua grandezza, è implicito il rischio dell’astrattezza che, in situazioni di crisi, di delusioni profonde ovvero di scelte difficili, tende a diventare ipocondria. In ogni caso, grazie anche alla mediazione di Marx ed Engels, alle spalle della critica leniniana della «frase rivoluzionaria» agisce la critica hegeliana dell’«ipocondria» dell’impolitico.
6. Questa storia della fortuna di Hegel si può comprendere agevolmente. La logica-metafisica da lui elaborata fornisce la grammatica e la sintassi del reale, e di un reale che non presenta più zone d’ombra impenetrabili e inaccessibili alla ragione; a partire da ciò la filosofia hegeliana elabora anche la grammatica e la sintassi del discorso politico. In che cosa consiste l’azione politica? Sia l’ideologia direttamente impegnata nella conservazione dell’esistente sia l’ipocondria dell’impolitico, che si diffonde in seguito alla crisi di un ambizioso progetto di trasformazione, amano spesso contrapporre al vano e irraggiungibile mutamento delle istituzioni politiche e dei rapporti sociali oggettivi il più concreto e immediato mutamento nell’interiorità della coscienza. Per Hegel, invece, un’azione politica degna di questo nome mira a intervenire in primo luogo sulle «leggi», le «istituzioni», i «rapporti» politici e sociali oggettivi. Un senso robusto della mondanità e politicità dell’uomo attraversa in profondità l’intero sistema filosofico hegeliano. L’odierno panorama filosofico è largamente caratterizzato dall’ipocondria dell’impolitico; non sembra trovare ascoltatori attenti il monito di Hegel, per il quale la filosofia dovrebbe guardarsi bene dal «voler essere edificante». Ai suoi tempi, Kierkegaard non nascondeva il suo fastidio per «quest’odio per l’”edificante” che fa capolino dappertutto in Hegel»[10]. Ma oggi il dominio dell’edificazione è così incontrastato, che si ritiene superfluo polemizzare contro quel monito. La raccolta di saggi, che qui propongo, vorrebbe provare a richiamare l’attenzione su una grande lezione oggi largamente rimossa, ma forse più che mai attuale.

[1] Per quanto riguarda Burke e Maistre, cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Roma-Bari 1996, cap. II, 11.
[2] Nell’analizzare i ceti intellettuali e politici negli Usa ho tenuto presenti Shearer Davis Bowman, Masters & Lords. Mid-19th Century U. S. Planters and Prussian Junkers, Oxford University Press, New York-Oxford, 1993, pp. 18-19 (al quale rinvio per quanto riguarda il confronto tra le piantagioni nel Sud degli Usa e le proprietà degli Junker nella Prussia quali «centri locali di autorità politica») e Edmund S. Morgan, American Slavery, American Freedom, The Ordeal of Colonial Virginia, Norton & Company, New York-London 1975, pp. 5-6 (al quale rinvio per il rapporto negli Usa tra schiavitù e libertà)
[3] F. W. J. Schelling, Philosophie der Mythologie, in Sämmtliche Werke, Stuttgart-Augsburg 1856-61, vol. XI, p. 549.
[4] In tale contesto mi pare sia anche da collocare, pur con le cautele e le precisazioni che egli fa valere, il lavoro, peraltro stimolante, di R. Esposito, Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna 1988; sull’intreccio tra emancipazione e orrore nel Novecento rinvio al mio Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998
[5] Cfr; D. Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini-Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1997, cap. III, 4.
[6] Vgl. D. Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992, cap. XI, 6.
[7] V. I. Lenin, Quaderni filosofici, a cura di L. Colletti, Milano 1969 (2° ed.), pp. 35 e 51.
[8] Cfr; D. Losurdo, Dai fratelli Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1997, cap. I, 4.
[9] V. I. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1955 sgg., vol. XXVII, pp. 4-6.
[10] S. Kierkegaard, Diario, tr. it. dal danese a cura di Cornelio Fabro, Morcelliana, Brescia, 1948, vol. I, p. 127.